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Vendite ai soci effettuate da un'associazione sportiva (Guida Normativa 1/5/2009)

Terzo Settore
1.5.2009 - n. 5 - p.37
Vendite ai soci effettuate da un'associazione sportiva

di Ricci Sergio


L'attività consistente in cessioni di beni o prestazioni di servizi nei confronti dei propri associati, effettuata verso pagamento di corrispettivi specifici, rientra nell'ambito dell'attività commerciale ancorché esercitata da associazioni od enti sportivi, culturali o ricreativi con relativa applicazione della relativa imposizione fiscale.

La sentenza 9 settembre 2008, n. 22739 della Corte di Cassazione, relativa alle associazioni senza fini di lucro ed in particolare alle associazioni sportive dilettantistiche, affronta uno degli argomenti più frequenti nella normativa tributaria (e nel contenzioso) vale a dire: il trattamento fiscale delle attività accessorie allo scopo sociale. La questione da risolvere è se le attività di gestione di bar e ristorante (o comunque le attività non rientranti nei fini istituzionali), esercitate da associazioni sportive dilettantistiche, siano o meno da configurarsi come attività commerciali e quindi, se in tale caso, i corrispettivi specifici costituiscano proventi imponibili perché di natura commerciale. L'analisi non può che partire, per le imposte dirette, dalla lettura del disposto contenuto nell'art. 148 Tuir, il cui comma 3 prevede che «per le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportivedilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona, non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti, di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, atto costitutivo o statuto fanno parte di un'unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali, nonché le cessioni anche a terzi di proprie pubblicazioni cedute prevalentemente agli associati». Invece per le imposte indirette il riferimento è l'art. 4 del D.P.R. n. 633/1972: «si considerano fatte nell'esercizio di attività commerciali anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi ai soci, associati o partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, o di contributi supplementari determinati in funzione delle maggiori e diverse prestazioni alle quali danno diritto, ad esclusione di quelle effettuate in conformità delle finalità istituzionali ...».

Il legislatore, con tali disposizioni, ci segnala innanzitutto che la regola generale per le associazioni senza fini di lucro è quella di considerare commerciali le cessioni di beni e le prestazioni di servizi non effettuate in conformità alle finalità istituzionali rese agli associati e partecipanti dietro pagamento di specifici corrispettivi, ed introduce una deroga per solo alcune particolari categorie di enti. L'agevolazione si rende però applicabile solo con la presenza congiunta di particolari presupposti quali:

1) l'associazione deve appartenere ad una tipologia giuridica particolare;

2) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi devono essere rese agli associati;

3) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi devono essere effettuate “in diretta attuazione degli scopi istituzionali”.

In assenza anche di uno solo dei requisiti sopra esposti, le attività si considerano commerciali, quindi assoggettate a tassazione sia ai fini delle imposte dirette che di quelle indirette. Se si legge, di seguito, il successivo comma 5 dello stesso art. 148 Tuir, si può verificare come il legislatore abbia volutamente inteso agevolare ulteriormente alcune più specifiche categorie di enti non commerciali precisando che: «per le associazioni di promozione sociale ricompresse tra gli enti di cui all'art. 3, comma 6, lett. e), della legge 25 agosto 1991 n. 287 le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero dell'Interno, non si considerano commerciali, anche se effettuate verso pagamenti di corrispettivi specifici, la somministrazione di alimenti e bevande effettuata, presso le sedi in cui viene svolta l'attività istituzionale, da bar ed esercizi similari e l'organizzazione di viaggi e soggiorni turistici, sempreché le predette attività siano strettamente complementari a quelle svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali e siano effettuate nei confronti degli stessi soggetti indicati nel comma 3». L'ulteriore precisazione accentua ancora maggiormente la circostanza che l'attività di somministrazione di cibi e bevande non può per propria natura essere considerata quale adempimento di finalità istituzionali per soggetti che non siano associazioni di promozione sociale e, pertanto, è da ritenersi attività commerciale al di fuori della specifica ipotesi prevista dal citato comma 5 relativa alle associazioni di promozione sociale stesse. Lo stesso viene riportato in materia di Iva, analizzando i commi 3 e 4 dell'art. 4 del D.P.R. n. 633/1972.

L'analisi della Cassazione

Relativamente alla fattispecie esaminata oggetto della controversia su cui si è espressa la Cassazione, si osservi come in merito alle associazioni sportive sia indispensabile la qualifica di “associazioni sportive dilettantistiche”, per poter usufruire del trattamento di favore previsto. Circa la necessità che le attività svolte dall'ente siano in «diretta attuazione degli scopi istituzionali» è stato più volte precisato come queste debbano intendersi non genericamente riferibili alle finalità previste dallo statuto, ma che esse siano il «naturale completamento degli scopi specifici e particolari» che caratterizzano ogni ente associativo e quindi quando non si verifica tale aspetto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi rientrano nell'area della commercialità. Del resto, in tal senso si era già pronunciata di sovente la Corte di Cassazione (sentenze nn. 20073/2005, 6340/2002, 6338/2002, 2403 e 3850/2000) affermando sostanzialmente che l'attività di bar con mescita di bevande ai propri associati non costituisce adempimento di finalità istituzionali e che pertanto i proventi dovranno essere assoggettati ad imposizione fiscale sia ai fini Iva che delle imposte dirette. Inoltre anche un'altra sentenza della Corte di Cassazione, 30 marzo 2007, n. 7953 ha ancora ribadito che la previsione di non commercialità deve essere riferita esclusivamente alle associazioni di promozione sociale, accogliendo l'orientamento prevalente già espresso dall'Amministrazione finanziaria, che non a caso ha ribadito nuovamente tale aspetto con la C.M. 12 maggio 1998, n. 124/E.

Considerazioni conclusive

Pertanto, la conclusione cui è pervenuta la Corte di Cassazione con quest'ultima sentenza riprende un orientamento consolidato e quindi in ultima analisi possiamo trarne le conclusioni che la previsione di non commercialità operi nei soli confronti delle associazioni di promozione sociale, confermando per tutti gli altri enti di tipo associativo, comprese le associazioni sportive dilettantistiche, l'orientamento in base al quale deve essere considerata commerciale sia ai fini delle imposte dirette che indirette l'attività di somministrazione di alimenti o bevande nei bar interni ai circoli associativi sia più in generale quando le cessioni di beni e le prestazioni di servizi non siano conformi ai fini istituzionali, anche le stesse sono svolte nei confronti dei propri associati. L'elemento aggiuntivo inoltre, dato da quest'ultima sentenza esaminata è che l'effettiva corrispondenza ai fini istituzionali dell'attività non può discendere esclusivamente dal riconoscimento da parte di una federazione di un'associazione sportiva dilettantistica. Il riconoscimento da parte di una federazione implica semplicemente che lo statuto è conforme ai principi dell'attività sportiva dilettantistica ma non é un “lasciapassare” sulle attività svolte in concreto dall'associazione stessa. È il solito malinteso in cui cadono molte associazioni che viene ancora una volta ripreso indirettamente dalla Corte di Cassazione cioè quello della legittima differenza tra non commercialità e non lucratività. La non lucratività implica infatti l'espressa previsione statutaria della destinazione del patrimonio e degli utili alle finalità dell'ente (con l'esclusione della ripartizione anche indiretta), mentre la non commercialità riguarda l'aspetto fiscale e contabile delle operazioni svolte ed il relativo comportamento dell'ente non profit conforme alle leggi vigenti di natura tributaria (e contabile) aldilà delle previsioni statutarie. Aspetti che possono pienamente coesistere nello stesso ente non profit purché non si faccia (come avviene spesso) confusione tra i due piani.