Fonte: Eutekne.info del 10/12/2012
Il Fisco non può sindacare la congruità delle sponsorizzazioni
La valutazione quantitativa sulla congruità degli importi pattuiti per la sponsorizzazione spetta soltanto all’imprenditore
La sponsorizzazione di un’associazione sportiva è deducibile dal reddito d’impresa, trattandosi di costi sostenuti per pubblicizzare la ragione sociale dell’azienda. Inoltre, il Fisco non può sindacare la congruità degli importi pattuiti per la sponsorizzazione, atteso che tale valutazione quantitativa compete esclusivamente all’imprenditore. È quanto stabilito dalla C.T. Prov. di Lucca, con la sentenza del 8 ottobre 2012, n. 160.
In sede di controllo fiscale, vengono generalmente mosse due diverse tipologie di contestazioni in merito alle spese di pubblicità per sponsorizzazioni (generalmente sportive): la prima attiene alla natura di tali spese e si incentra sulla loro qualificazione, mentre la seconda riguarda l’entità delle stesse e la loro congruità rispetto alle prestazioni in oggetto e alla situazione reddituale e patrimoniale dell’impresa. Più precisamente, con il primo ordine di rilievi fiscali, l’Amministrazione finanziaria disconosce alle spese di sponsorizzazione la qualifica di costi di pubblicità integralmente deducibili dal reddito ex art. 108, comma 2, del TUIR, per riconsiderarle come spese di rappresentanza soggette a stringenti limiti di deducibilità. Tale riqualificazione avviene generalmente perché il Fisco deduce l’inesistenza di un legame diretto tra l’attività svolta dallo sponsor e l’oggetto della sponsorizzazione, di talché da quest’ultima nessun potenziale incremento dell’attività può trarre lo sponsor.
A conforto di tale impostazione, depone l’orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa e a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta. Pertanto, sono da considerare spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, mentre costituiscono spese di pubblicità o propaganda quelle sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi e in certi contesti, anche temporali. Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d’immagine e il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto (ex plurimis, Cass. 8679/2011, 21270/2008, 9567/2007).
Il secondo ordine di rilievi fiscali mossi dal Fisco, invece, non comporta una riqualificazione della natura delle spese di sponsorizzazione, ma interviene sulla misura di tali spese. È quanto avvenuto nel caso affrontato dalla C.T. Prov. di Lucca: l’Ufficio aveva recuperato a tassazione le spese di sponsorizzazione di una piccola srl, di importo pari a 70.000 euro oltre IVA, perché, pur ritenendole spese di pubblicità, ne aveva contestato “l’inerenza per la natura sproporzionata, incongrua ed eccedente il valore di mercato”. Ciò significa affermare che, secondo il Fisco, l’importo speso dall’imprenditore non era congruo rispetto al suo volume d’affari e in relazione al valore di mercato delle prestazioni di sponsorizzazione.
I giudici di merito hanno stabilito in proposito, richiamando una recente sentenza di legittimità (cfr. Cass. 6548/2012), che nel caso di specie non incombeva alcun onere probatorio sul contribuente, atteso che l’inerenza di tali spese doveva ritenersi insita nelle stesse, in quanto “intrinsecamente necessarie alla produzione di reddito”. Per quanto riguarda, poi, l’asserita incongruenza quantitativa di tali spese, il collegio di primo grado ha stabilito che “la valutazione della congruità o sproporzione del costo […] compete all’autonomo giudizio dell’imprenditore”.
A ben vedere la questione si risolve alla stregua della valutazione di economicità di un costo: le spese di sponsorizzazione, infatti, se confrontate con la situazione reddituale e patrimoniale dell’impresa, potrebbero portare ad un giudizio di antieconomicità, in presenza del quale la giurisprudenza di legittimità ha sempre consentito al Fisco di procedere ad accertamento e di disconoscere la deducibilità del costo ritenuto incongruo, salvo dimostrazione contraria da parte del contribuente (ex plurimis, Cass. 11645/2001, 10802/2002, 11240/2002). Ancora recentemente, del resto, i Supremi Giudici hanno stabilito che nei poteri dell’Amministrazione finanziaria rientra la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, “con negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa” (Cass. 4554 e 4557 del 25 febbraio 2010).